Dttri & Ironman

Alcuni anni sono passati. L’età neonatale è sconfinata nella maturità, la squadra si veste di autonomia e intende “ballare da sola”, una piccola eco del grande Bernardo non fa mai male.

L’età adulta si accompagna con primi bilanci, occasioni di riflessioni e di giudizi.

Premessa d’obbligo: non ho alcuna autorità e ancor meno autorevolezza per impossessarmi del compito di stilare pagelle, voti e sentenze. Ciò mi rende completamente libero di esprimermi e, di riflesso, tutti coloro che lo desiderano sono invitati caldamente ad esprimersi e commentare queste poche righe.

Fin dalle origini i promotori del Dttri dovettero compiere una scelta sulla natura della squadra: aperta a tutte le istanze, o chiusa a pochi eletti. 

La popperiana (e lasciatemi fare il profe, per la miseria)  società aperta fu la decisione, con una chiara avvertenza: nessuna preclusione, indicazione o dir si voglia sulle distanze da praticare: tutto purché fosse Triathlon.

Ora nelle numerose chat che  informano sugli accadimenti del Dttri, fatte per agevolare la condivisione delle attività e ammortizzarne le fatiche, ve ne è una dedicata alle gare. Io da buon storico segugio uso questa fonte per alcune  analisi divinatorie.

Sottolineo il punto: trattasi di osservazioni ex post senza alcuna predestinazione ex ante, esse sono il mero frutto della libera combinazione dei nostri desideri. 

Scorro l’elenco delle gare per il prossimo anno accademico: 15atleti, campione sufficientemente rappresentativo, segnano 16 gare Ironman, di cui due extreme, e 7 mezzi Ironman.  

Esito che suggerisce, anzi impone, di soffermarsi su alcuni interrogativi.

La tendenziale prevalenza verso gare endurance è un dato effettivo, oppure trattasi di sola illusione ottica? E ancora, Il Dttriha giocato un ruolo nel favorire queste scelte? Da cui deriva l’ulteriore  domanda: qual’ è la cultura sportiva che il nostro agire ha costruito nel tempo?

Procedo. Praticare discipline, distanze, così dure richiede adeguati allenamenti: mentali e fisici. 

I primi riguardano le motivazioni e le finalità che generano tali scelte. La riflessione sul limite, già più volte sollecitata, diviene imprescindibile. Il rischio peggiore nella sua elusione sta in ciò che la storia, mai dimenticarselo maestra di vita, ha insegnato nella parabola dell’alpinismo. Il rincorrere mete sempre più ardite, pericolose, estreme, finanche mortali, ha trasformato l’ascesa in una macabra rincorsa all’impossibile, alla sola conta dei gradi, delle cime conquistate, dei record superati, della competizione per la competizione, segnando la fine della nobile aspirazione a cogliere lo spirito, il significato ultimo della montagna. Vogliamo ripetere la medesima sorte anche per il triathlon? Ricordiamocelo, la prima è storia, la replica è farsa. 

Avvertenza: riflettiamo,  esplicitiamo bene le ragioni che presiedono alla scelta non del FARE un Ironman, ma dell’essere un Ironman, che non significa affatto coprire la fatidica distanza, e  vengano pure tutti i risolini di scherno per l’abuso della retorica. In altre parole, discutiamo liberamente, francamente e sinceramente sulle nostre convinzioni e scelte, mettiamo  il tutto a confronto, sicuro male non fa.

Alla mente segue il corpo, il prezioso contenitore del nostro essere.

Quanto lo rispettiamo? Abbiamo la necessaria e adeguata conoscenza sul trattamento che a lui riserviamo, al come preservarlo in salute nell’affrontare prove così impegnative? Siamo in grado di interpretare i suoi segnali in caso di abuso?

Da scriba e amico, spero di stimolare, provocare e infine sentire  le vostre voci per continuare a gioire nel credere di poter essere una persona Ironman non per le gare che ho finito, ma per averle prima di tutto condivise con cari amici.
Valerio

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